Albero, raccontami storie di luce
Intatta bellezza d’una terra, d’una casa: è questa campagna, dove vivo. Sempre, con l’alternar delle stagioni, indossa tanti colori da farsi ammirare sempre differente, rigenerata.
Io ne sono il signore!
E io chi sono? Chi son stato? Chi ero?
Ero appulo pastore, e andavo, tanto tempo fa, per i boschi che questa terra ricoprivano; così, un giorno inciampai in un gruppo di seminude ragazze.
Ninfe.
M’assatanarono, le aggredii, le chiamai con osceni moti, corsi per ghermirle, fuggirono, in principio, impaurite. Ma di lì a poco, allontanata la paura, si trattennero e dettero inizio alle danze. Ripresi a correre attorno a loro, gridando, chiamandole, desiderandole. Pian piano però, m’avvidi che stavo cambiando : ruvida corteccia mi stava ricoprendo piedi gambe tronco tutto.
Ero in un albero. Attorno a me continuarono le danze … con un canto dolce mi chiamavano:
“ulivo…ulivo…ulivo…”
Non mi credete? Guardatemi bene,allora, quando m’incontrate!La vedete la mia faccia? Sono, io, là dentro e di là vi vedo e vedo loro. Non le sentite? Ci sono ancora, quando dall’alba al tramonto le mie drupe raccolgono. Lì ci sono io e ci sono tutti i miei fratelli, i nonni : gli alberi di ulivo. Guardateli! Vi ricrederete: le metamorfosi non sono un’invenzione. E, se poi, non dovessero esserci i visi deformati dal dolore nelle metamorfosi, ci sono sempre, negli ulivi più vecchi, le cavità, i buchi, i pertugi, che servirono ai briganti per nascondervi coltelli, fucili, canzoni e tabacco.
Inseguitemi, albero dopo albero, e fissate tronco dopo tronco : scoprirete l’essenza della materia, vi svelerò la mia capacità di sprigionare visioni dal legno di cui sono fatto. Dovete apprenderlo: ogni albero ha un anima, ha un corpo e un sangue, nasconde un personaggio e dice cose che l’orecchio non intende.
Sono anche il dio dai capelli d’argento, fermo, ancorato alla terra fatta d’aria e pietra e tu vento non mi scalzerai: soffia pure tra i rami, là sulla cima. Tramontana garbino favonio, passa! Ma, anche se mi scuoti, puoi solo accarezzare i miei capelli.
Quante leggende su di me.
Si narra che Atena e Poseidone, per avere la supremazia sulla città di Atene, litigavano da anni. Quando alla fine non riuscirono a venirne a capo, andarono dal padre loro Giove: lui avrebbe deciso di risolver la questione. Quando la dea Atena svelò il dono che gli portava ( e che ero io, l’ulivo), fu lei a diventare la protettrice della città. Divenni albero sacro ai greci.
Sofocle, parlando di me, diceva che ero la “ dolce nutrice argentea” e che se qualcuno mi distruggeva doveva essere condannato a morte.
Ulisse, di me, ne fece letto nuziale.
Ancora: ad Adamo, in punto di morte, venne un angelo e posò sulle sue labbra tre semi, che portò con sé nel suo sepolcro. Dalla terra, in cui trovò la pace eterna, nacquero tre alberi: un cedro, un cipresso, e io, l’ulivo.
E Bianca una colomba tornò, alla fine del Diluvio, all’arca di Noè: nel becco, le avevo dato da portare un mio ramoscello: annunciava la pace.
Con un altro mio fratello veglio dolcemente le tombe a Casarsa di Pasolini e sua madre.
Sono l’ulivo!
Con tronco ricurvo, come schiena che ha lottato per anni contro vento e sole, le chiome grigie un po’ scompigliate, una bandiera sfilacciata, la pelle ruvida e screpolata, simile alle mani dei contadini che mi curano, come fossi il figlio più caro. I contadini, già , “ habitantes in turribus.
Eccoli in un momento della raccolta delle olive.
E’ l’alba e una sottile foschia avvolge le cime degli alberi. Hanno acceso il fuoco e son seduti su alcune pietre che affiorano nei campi. C’è chi ha portato il pane di Altamura e lo sta spezzando (perché il pane non si taglia). Servirà per la colazione e per iniziare a lavorare. Molte olive sono già turgide e la pelle si screpola. Bisogna coglierle. La mia amica pietra è pronta. Ho detto ai braccianti: stendete un velo da sposa per la mia unione con la terra e, impalpabili, le reti poi anche su di me, abbracciate il mio tronco, sì che neanche una perla d’oliva vada perduta. Battete con le pertiche, fate cadere una pioggia verde sulle “racne” stese sapientemente a terra, lunghe quanto basta e attorcigliate ad abbracciare i tronchi. Qualcuno passi il “pettine”, la granceola, tenuto con la mano destra, sui rami attirati con la sinistra; e danzate, avanti avanti venite, con la pertica battete, scuotete, battete, scuotete; non un
lamento sentirete da me, su battete, scuotete, non stancatevi. I frutti giù nelle cassette o nei cassoni portateli al frantoio. Un po’ di olive però conservatele da parte: al sale con l’aglio o con il finocchio selvatico. E voi stelle, specchiate la vostra luce sui miei frutti e cantate, cantate e suonate le vostre melodie: per me, sempre, fauni e ninfe silvestri benigne ai contadini hanno intrecciato cori e danze. Chi di voi non ha provato emozioni nel vedere in lontananza, fra la selva degli alberi, alzarsi quel filo di fumo grigioazzurro, avvertendone, poi, il caratteristico odore di frasca che brucia allegramente, dopo la potatura ? O di essere restati un attimo storditi, mentre, percorrendo una strada di campagna, dense spirali di fumo grigio si levano dai bordi dei campi ed entrano, attraverso il finestrino aperto, nella vostra automobile?
Ho sulla la pelle mille cicatrici, braccia e mani piene di nodi piccoli e grandi, come quelle dei miei contadini, io loro figlio, o padre, o fratello, rinasco e riscatto con la fiera dignità d’un monumento. Sono un monumento! M’incurvo come schiena che ha lottato. Sulle spalle porto il sole e la luna, bevo la luce e il salmastro della terra, il mio tronco è casa, tenda, riparo, tana abbraccio materno a lucertole e ramarri; ai giochi leggeri di mille passeri sussurro, verde argento, favole e racconto la fatica, il lavoro degli uomini.
Poi, quando tutti ve ne andate, rimango solo.
Regna il silenzio della campagna, interrotto di tanto in tanto da suoni lontani, dal latrato di qualche cane, dal canto d’un uccello, d’una civetta,d’un gufo, affascinato dal cadere di una pioggerellina sottile. Se ci si imbatte in un rudere abbandonato, ci si sente afferrare da leggera paura, ritenendolo adatto ad essere usato come nascondiglio da briganti o sconosciuti fantasmi.
Mi fermo così in una dolce malinconia, quella che nasce da remota nostalgia, dalla memoria di un tempo indefinito, così simile a quello di cui, con grandi occhi, uomini e donne del Sud, braccianti angolosi ci parlano: di terra di tufo, di umidi panni stinti, di mani di pietra, di identità smarrita, della forza dell’attesa e della pazienza del vivere le prove della povertà, del non poter cambiare nella vecchiaia.
Sì, ulivo, solenne, nodoso, squassato da secoli, corteccia percorsa da spasmi e scariche di energia, corpo come montagna devastata da sisma.
Ho accettato la sfida con i venti che volevano strapparmi alla terra, mi sono piegato, e ho vinto, sempre, nutrendo il calice dell’immortalità.